Ultima modifica: 6 Dicembre 2018

TOLLERANZA ALLA FRUSTRAZIONE

frustrazione

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Gianni gioca con i compagni Sandro e Claudio a “Non t’arrabbiare!” una sorta di Gioco dell’oca in cui le pedine di ciascuno possono scalzare e rimandare alla partenza quelle degli avversari. Per la terza volta Sandro mette fuori gioco la pedina di Gianni. Lui non lo sopporta, urla “‘Non gioco più!” e dà un colpo al tavolo. “Nessuna tolleranza alla frustrazione”, mormora l’educatrice alla collega.

Che cosa significa non tollerare la frustrazione nell’infanzia? Intolleranti alla frustrazione sono quei bambini che perdono le staffe dopo una sconfitta o che si arrendono rassegnati alla minima sfida, come un gioco di pazienza più impegnativo. All’origine di questa intolleranza ci può essere una normale immaturità che col tempo si risolve, ma possono esserci anche delle concause,  per esempio l’iperprotezione dei genitori, che vogliono evitare qualunque insuccesso ai loro figli, i quali rimangono fissati alle fantasie infantili di onnipotenza. Ma ci può anche essere l’abitudine di passare da una cosa all’altra, senza concentrarsi su nulla, e quindi di provare irritazione per le situazioni che richiedono impegno.

Il concetto di tolleranza alla frustrazione risale agli inizi della psicoanalisi, all’opera di Rosenzweig, che definiva la tolleranza alla frustrazione come la capacità di sopportare una situazione frustrante senza stravolgere i dati di realtà  o elaborare il conflitto in senso nevrotico. Questo suo concetto presenta un parallelismo con quello freudiano di forza dell’io, che permette di controllare gli impulsi e accettare il rinvio della soddisfazione dei bisogni. Soprattutto su un punto Freud e Rosenzweig concordavano: la formazione di una buona capacità di tollerare la frustrazione è un passo fondamentale nello sviluppo psicosociale. Solo chi impara già da bambino a digerire le sconfitte riuscirà in seguito a riprendersi più facilmente dopo una batosta. Ma come avviene che un bambino sviluppi tale tolleranza? È importante anzitutto un buon legame di attaccamento nei primi anni di vita. Se il bambino cresce con genitori affettuosi e sensibili (ma non ansiosi e iperprotettivi), è facilitato nello sviluppare gradualmente la capacità di maneggiare i propri stati emotivi. Consolando la sua rabbia o calmandone l’eccitazione, i genitori regolano inconsapevolmente le emozioni del figlio fin dalle prime fasi della vita e lo portano così a poterlo fare da solo. Col tempo riuscirà a sopportare le tensioni o a tranquillizzarsi in situazioni critiche, tramite l’autoregolazione.

Non è importante solo l’autoregolazione, entra in gioco anche l’esercizio: il bambino deve avere la possibilità di fare esperienze di conflitto. Se gli adulti cercano di tenerlo al riparo da qualunque insuccesso, il bambino non impara né l’importanza dello sforzo, né la capacità di rinviare la gratificazione. Sopportare la competizione sarà per lui difficile: un bel guaio in un’epoca dove si richiede sempre più grinta e capacità competitiva. Bisogna dunque lasciar perdere i propri figli di quando in quando.

Anche la scuola può svolgere un ruolo importante. Gli insegnanti possono spiegare alle famiglie l’importanza dello sforzo e incoraggiare i ragazzi a non indietreggiare di fronte alle difficoltà, E quando in classe ci sono dei bambini più tolleranti alla frustrazione, essi fungeranno da modello per quelli che ancora non hanno acquisito questa capacità.

L’autrice del brano è Anna Oliverio Ferraris. Pubblicato su Vita Scolastica 2015.

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